Introduzione

Il primo compito di chi voglia affrontare il problema tutt’altro che facile di Michelangelo scrittore e poeta consiste, a mio avviso, nell’intendere le sue prospettive operanti, in rapporto alla sua posizione storico-personale, superando preliminarmente sia la disposizione agiografica e di un automatico passaggio dalla grandezza dell’artista figurativo a quella dello scrittore e del poeta (con molte riserve circa l’assoluta similarità delle forme espressive dell’artista e del poeta in nome di una centrale e unitaria tendenza plastica), sia la dura preclusione in nome di una mancanza di esperienza e possesso di mezzi espressivi in poesia, di un dilettantismo o di un diarismo senza vera necessità espressiva, sia la semplice presentazione viceversa di uno sperimentatore di stile su di una tematica sostanzialmente fissa, statica e astorica.

Mentre si è cercato di storicizzare l’esperienza poetica michelangiolesca attraverso il piú deciso rilievo di alcune componenti spirituali e letterarie (un particolare platonismo fuori della via bembesca, un forte dantismo, una linea bernesca[1]), un altro punto positivo della recente critica[2] mi pare appunto anzitutto costituito dalla piú decisa, aperta smontatura del dilettantismo michelangiolesco, dall’osservazione dell’impegno stilistico e tecnico di Michelangelo recuperato in una prospettiva di sviluppo e di maturazione e identificato soprattutto nella zona centrale delle rime.

Solo che questa giusta esigenza di storicizzazione e di comprensione delle particolari esigenze di poetica di Michelangelo poeta (cui andrà energicamente accompagnato il rilievo del piano espressivo dello scrittore delle lettere) deve essere portata avanti, precisata in un piú minuto e avvicinante esame dello svolgimento dell’esperienza poetica, piú energicamente ricollegata a quei nuclei interni del mondo michelangiolesco, della sua Weltanschauung, della sua sofferenza drammatica della propria situazione storico-personale, del suo rapporto con le tendenze spirituali e letterarie dell’ultimo Quattrocento in cui egli si è formato, per poter davvero cercare di cogliere non l’ineffabile segreto e la miracolosa condizione della sua poesia e del suo stile, ma le necessità concrete e le forme concrete della sua lunga esperienza poetica e la stessa forma della sua presenza nella storia della nostra letteratura.

Tutto ciò non si risolverà in una rappresentazione senza giudizio di valore, ma permetterà di giungere ad esso per una via piú concreta e meno pregiudiziale, evitando insieme uno scandaglio sulla qualità della poesia di Michelangelo solo per assaggi di campioni indifferenziati nella storia della sua esperienza poetica.

Prospettiva di un recupero di tutti gli elementi atti a chiarirci la realtà della sua esperienza di scrittore, sí che non si temerà di affrontare il rischio del biografismo e dello psicologismo, ben sapendo come proprio una spregiudicata valorizzazione dei nessi vita-poesia e il richiamo di necessità espressiva e di poetica ha pur permesso in tanti casi di rendersi conto della natura di una poesia al di là del puro esame di poesia e non poesia e della semplice verifica stilistica.

Né si temerà di ricadere in forme di critica romantica se si cercherà di intendere le ragioni stesse dell’operazione poetica nel loro rapporto con la posizione storico-personale dello scrittore, sapendo fra l’altro che cosí si contribuirà pure indirettamente ad un migliore chiarimento della stessa origine interna delle piú alte manifestazioni dell’artista figurativo.

Ed anzi si vorrà proprio, non per pura deduzione metodologica, ma per sollecitazione del caso concreto, mettere in primo piano una precisazione di tale posizione (che si servirà poi piú precisamente dell’ausilio formidabile delle lettere come documento non esterno, ma vivo nella forza e nella validità dello scrittore), pur sapendo come sia inevitabile ripetere cose anche scontate, ma non perciò meno giuste e utilizzabili in rapporto ad una ricerca di tensione espressiva da cui risalire a volta a volta agli esiti concreti.

Apparirà anzitutto essenziale ribadire che Michelangelo rappresenta nettamente una forma estrema di coscienza drammatica del tempo in cui visse e che la sua esperienza poetica non può intendersi e seguirsi senza inserirla nel ritmo tormentato della sua esperienza vitale e storica, senza rilevarne la qualità di necessaria espressione di una fondamentale intuizione drammatica (fino a forme metafisiche ed emblematiche del suo contrasto interno che a questa nel suo concreto atteggiarsi van continuamente riportate per sentirne il valore tensivo e concreto) in cui le spinte di superamento, di spiritualizzazione e sublimazione attraverso lo stesso energico e inquieto platonismo e concettismo metaforico trovano scatto in quanto rispondono, fra polemica ed aspirazione positiva, ad un piú profondo sentimento di scacco e di malinconia, di delusione e frustrazione. Sentimento che è certo in rapporto con un sentimento piú generale che va allargandosi entro la civiltà cinquecentesca, dopo l’umanesimo civile e letterario e dopo la cresta non molto ampia del Rinascimento (quando la caducità è compensata dall’idillio e dalla voluttà intensa dell’attimo felice interamente goduto e, poi, da un sentimento di pienezza creativa e realisticamente operante e da una aspirazione a forme di pur diversa «armonia» in tutti i suoi aspetti fino a forme di edonismo che dallo spirito passano ai caratteri del linguaggio), nella sensazione crescente di una instabilità dei valori, di una erroneità delle forze umane, di una casualità e ostilità della fortuna, appoggiate alla coscienza piú o meno chiara delle drammatiche vicende storiche italiane (caduta delle libertà cittadine e regionali, guerre e sterminii, scacco della esigenza di riforma spirituale e religiosa)[3].

Michelangelo è al centro e al culmine di questa linea di tensione drammatica confermata dalle sue stesse vicende personali ingigantite dal raccordo a questo motivo interno e generale (le vicende della difficile lotta di affermazione artistica, economica e sociale anche a causa dell’ostilità degli altri artisti, la delusione del cittadino fiorentino nella caduta della Firenze repubblicana, la delusione del savonaroliano e dell’uomo della fallita riforma cattolica di fronte al concreto agire del potere ecclesiastico e dell’affermazione della Controriforma) da cui egli risale pur drammaticamente attraverso l’attività creativa e la spinta platonica e religiosa senza mai effettivamente trovare una vera pacificazione, un vero placamento: ché la stessa spinta platonica e religiosa si colora drammaticamente della lotta con la sua sensualità e con il sentimento del peccato, sí che la stessa prospettiva verso il divino e l’eterno non giunge mai alla sicurezza del possesso e del porto raggiunto.

Grande personalità tragica (e le lettere ne sono rivelazione piú immediata e fulminea), Michelangelo poeta trae la sua forza da questo dramma storico-personale che si apre ad un dramma esistenziale e che incoraggia la sua tendenza ad una espressione tormentata, sofferta, la piú lontana possibile (nei suoi centri piú intensi) dalle vie facili e dall’edonismo e dall’idillio, e inasprita da un forte attrito con la realtà fino al deformato e al grottesco.

Donde anche l’irrequietezza della esperienza poetica, la sua insistenza spesso piú sui centri e gli avvii che non sulla compiutezza, l’incapacità spesso (e spesso la non volontà) di giungere ad una fusione intera e superiore delle sue tensioni.

Donde (nella consonanza con aspetti preminenti della sua formazione letteraria, fra l’altro senza «latini», senza Virgilio, Orazio, Cicerone) il rifiuto dell’armonia e, piú, della melodia, e la ricerca di forme in tensione e in contrasto dinamico. Poesia senza esplicito «canto» e senza appoggio di paesaggio, la cui volontà di essenzialità conduce anche al rischio di un’eccessiva fiducia nella forza del concetto da cui a volte Michelangelo cade nel virtuosismo, difficilmente però privo di implicazioni poetiche.

Donde anche il carattere risentito e deformante, fino al grottesco piú drammatico, della sua linea di esperienza piú realistica, che è forma di per sé espressiva (e mal assimilabile al semplice bernismo) e riserva di inasprita realtà per le linee piú centrali della sua poesia. Donde lo stesso predominio delle antitesi la cui forza vera va però cercata nelle ragioni interne che, di volta in volta, nelle varie fasi la giustificano.

È soprattutto da questa posizione drammatica che deriva il carattere della sua poesia e spesso la sua stessa difficoltà di organizzazione piú intera e «perfetta», anche se, come vedremo, non manca una fase di organizzazione piú sicura e a suo modo equilibrata, ma con il rischio forte del prevalere del concettismo e del virtuosismo.

È soprattutto dall’estremo risentimento di questa posizione che deriva il carattere di singolarità (rafforzato dalle sue coerenti scelte letterarie iniziali) della sua esperienza poetica che può isolarsi letterariamente, in una via piú sua, dalle linee rinascimentali (anche se il quadro del Cinquecento è piú vasto del petrarchismo e dell’antipetrarchismo) toccando anticipi e aperture di manierismo e di prebarocco, ma richiamando, al centro, a una posizione profondamente storica e svolgendosi in una propria storia densa e complessa la cui ricostruzione spiega meglio anche i margini piú deboli, le inadempienze e i risultati della sua poesia meglio che in uno scandaglio globale e in un semplice esame antologico che perderebbe di vista l’eccezionale corrente poetica che circola entro tutta la sua opera di scrittore e, attraverso questa, arricchisce la sua stessa attività figurativa. E si potrà pur sempre avvertire, al livello dei piú conclusivi fatti estetici della sua arte figurativa e al livello della grande poesia cui egli comunque ci avvicina e ci stimola, un limite di totale resa artistica delle sue poesie, quasi un limite di mancanza per eccesso e per drammatica urgenza e confluenza e intrico di tensioni, ma non si potrà facilmente ritornare al puro dissenso classicistico di base, al rifiuto di una qualità e necessità poetica e di una serietà e di un impegno artistico, mentre sarà ben difficile negare il segno del grande scrittore alle sue lettere, alla sua prosa cosí lontana dai piú comuni moduli rinascimentali, ma cosí vigorosa e potente ed estremamente significativa per tutta la sua personalità.


1 Sono le indicazioni raccolte nel saggio di L. Baldacci, La poesia di Michelangelo, in «Paragone», 72, 1955, pp. 27-45 (che riprende quanto al bernismo – a proposito del quale avremo poi modo di far limitazioni – il saggio di G. Contini in «Rivista Rosminiana», ottobre-dicembre 1937, ora in Esercizi di lettura, nuova ed. Torino 1974, pp. 242-58).

2 Si vedano in proposito i saggi di E.N. Girardi (al quale si deve l’importante edizione critica delle Rime, Bari 1960, di cui ci serviremo per i testi citati) raccolti in Michelangelo poeta, Milano 1964, e quello, importante anche per la scansione cronologica dell’attività lirica michelangiolesca, di P.L. De Vecchi, Studi sulla poesia di Michelangelo, in «Giornale storico della letteratura italiana», 1963, 429, pp. 30-66, 431, pp. 364-402. Assai notevole è il capitolo di H. Friedrich nel suo volume Epochen der italienischen Lyrik, Frankfurt am Main 1964.

3 Si pensi al Bembo e al Castiglione, in cui il platonismo funziona come ascesa letificante e riconducente a una circolarità di vita e di ideali in cui l’elemento spirituale non è rottura, ma completamento di un pieno circolo mondano. Si pensi allo stesso fondamentale, seppur singolare, equilibrio del Machiavelli nel nesso fortuna-virtú che esalta l’operare umano e costruisce distinzioni di autonomia a loro modo armoniche e circolari, e supera il fortissimo pessimismo nella visione operante dell’uomo attivo nella densa concretezza della realtà effettuale. Si pensi all’Ariosto che pure bene avvertiva una crisi storica in atto («il bel vivere allora si sommerse», per la calata di Carlo VIII) e una erroneità e amarezza della condizione umana («in questa assai piú oscura che serena / vita mortal, tutta d’invidia piena»), ma da ciò risaliva alla costruzione di un sopramondo rinascimentale mosso e vitale attraverso la poetica pur difficile del «cor sereno». Ma è chiaro che tutta la visione del Rinascimento è sempre piú da rivedere, tante sono in esso le spinte contrastanti e tanto insufficiente è una sua intera immagine solo armonica, sferica, olimpica. E proprio per l’Ariosto la mia stessa interpretazione storico-critica si è poi approfondita (rispetto al livello del mio volume Metodo e poesia di Ludovico Ariosto, Messina-Firenze, D’Anna, 1947, 19703, che pur conteneva elementi e nuclei – la stessa formula per il Furioso di interpretazione del ritmo vitale poeticamente tradotto in ritmo poetico – aperti in contrasto con la interpretazione crociana dell’«armonia»), come può vedersi già nel volumetto Ludovico Ariosto, Torino, Eri, 1968, che accentua la forza della coscienza ariostesca della crisi storica e la difficoltà della «risposta» poetica del Furioso, e tanto piú nel recente saggio Le lettere e le «Satire» dell’Ariosto (che compare ora, con qualche differenza quantitativa, nella «Rassegna della letteratura italiana», 1-2, 1975, e negli «Atti del Convegno ariostesco» dell’Accademia Nazionale dei Lincei), fortemente impostato sul rapporto fra l’Ariosto e la crisi storica che investe gli stessi valori elaborati dal Rinascimento, sí che il grande poeta del Furioso vi è presentato come «collaboratore critico» del Rinascimento stesso.